Il "caso Banksy" ed il dilemma tra la coscienza artistica, l'anonimato ed il diritto
Oggi vorrei condividere qualche mia riflessione scaturita dalla lettura di questo articolo sul "caso Banksy" e, più in generale, sul rischio che comporta per questo artista la scelta dell'anonimato, che ha aperto un capitolo tutto nuovo nel dibattito sul diritto d'autore e sul ruolo del messaggio originale di un'opera.
Per prima cosa mi ha colpito realizzare, una volta di più, come probabilmente le ragioni del diritto e quelle della ragione (o della morale, se si può ancora definire oggi una morale comune) non vadano decisamente a braccetto.
Da una parte c'è una dichiarata intenzione, nelle scelte di Banksy e, in generale, nel movimento originario della Street Art, di contrasto alle convenzioni e alla concezione commerciale dell'arte.
Come spesso rimarcato anche da altri street artist, come ad esempio Diavù, all'origine della street art c'è la condivisione di opere principalmente con tutti, con la finalità principale di veicolare un messaggio, spesso origine anche di contrasto con il "Sistema", per veicolare il quale gli artisti stessi si espongono a rischi, dal momento che le loro opere sono realizzate con metodi ai margini della legalità, visto che vengono eseguite su supporti pubblici o privati senza il consenso dello stato (per ciò che è di demanio pubblico) o del proprietario (per ciò che è proprietà privata).
Questo processo avviene nella consapevolezza che l'opera è realizzata per veicolare un messaggio a più gente possibile in modo immediato ed inaspettato e non ha finalità di durata e conservazione.
Per sua natura la Street Art nasce "effimera", perché in un "murale" c'è insito il concetto che l'opera stessa potrà in qualsiasi momento essere cancellata, distrutta, vandalizzata o anche nascosta dalla sovrapposizione di una altro murale diverso, magari realizzato da un altro street artist.
La natura stessa di un atto artistico di per sé formalmente illegale porta con sé intrinsecamente la possibilità che l'artista rimanga anonimo. Che sia riconoscibile con un alias che ne celi identità. Questo è proprio il caso di Banksy che, tra l'altro, al suo anonimato deve anche gran parte della sua popolarità.
Benché fin dai tempi di "Love is in the Bin" sia chiara la piena adesione al modello di obsolescenza urbana della street art nell'idea dell'autore, le sue opere sono comunque diventate oggetto di speculazione economica suo malgrado, tanto da spingerlo a creare una società che lo rappresenti per registrare un "marchio". Il ché per uno che ha sempre criticato il sistema e rinnegato il "copyright" suona come un controsenso, ma, paradossalmente, deve essere sembrata l'unica soluzione per arginare la speculazione economica sulle sue opere.
Cosa che, ormai si è capito, costringe l'artista ad operare una scelta.
Rinunciare al proprio anonimato oppure rassegnarsi al fatto di non poter tutelare le proprie opere dall'utilizzo commerciale da parte di soggetti terzi che ne entrino in possesso. Questo perché, per la legge, se resti anonimo non puoi rivendicare la paternità di un'opera e, quindi, non puoi neanche impedire che chi ne entri in possesso, a prescindere dal metodo, possa sfruttarla commercialmente.
Insomma, anche se è certa la volontà dell'artista, non si è tenuti a rispettarla perché l'artista non può rivendicarla in forma anonima. Il diritto contro la ragione.
Mi chiedo, senza avere una risposta, se in tempi in cui la titolarità effettiva di opere letterarie e figurative sono messe in pericolo dal crescente utilizzo di AI generative, questo non sia un ulteriore passo verso un mondo che tende ad affermare sempre di più le ragioni di chi sfrutta senza merito l'opera altrui rispetto a quelle del suo effettivo autore e se le ragioni interpretative del messaggio di un'opera artistica da parte dei suoi fruitori non rischino in qualche misura di stravolgere il messaggio stesso dell'opera snaturandolo del tutto.
Spero che la mia sensazione sia sbagliata.
A presto.
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